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Irène Lidova, critico ed animatrice di danza, personalità di riferimento per tutto un ambiente e lungo varie generazioni, è stata collaboratrice specialmente fedele ed affezionata della nostra rivista; e, per quanto possa contare, mia amica e referente assoluto di tutta la mia attività finora - e ancora - nel campo che ho scelto, o che m’è capitato.
Irina Kaminskaya – Lidova dopo il matrimonio con Serge Lido (nome francesizzato del russo Serghei Lidov) – era nata a Mosca nel 1907. Aveva un’età, dunque, per la quale l’evento dovrebbe avere il tono sereno d’un compimento naturale, e di una natura anzi assai generosa non tanto nel concederle una vita lunga, quanto nel conservarle e vorrei dire accrescerle fino all’ultimo un’intelligenza della vita e un così intenso amore per essa che non può credere chi non l’abbia conosciuta da vicino.
Ci vorrebbe altro che questa pagina, ma dirò brevemente quel che ho saputo di lei in ventisette anni di frequentazione, di persona a Parigi o in giro per il mondo del balletto, oppure a voce, sul filo telefonico quotidiano.
Bambina, negli anni della rivoluzione bolscevica era emigrata da San Pietroburgo (dove la sua famiglia si era trasferita) a Parigi, uscendo dalla Russia devastata attraverso un lago gelato in Finlandia, nascosta in una slitta. Nella capitale francese, dove l'aspettavano alcuni parenti, la famiglia s’installò in un tranquillo appartamentino nella rue Chernoviz, dove Irène ha abitato, poi col marito e infine sola, fino ad oggi.
Come molte figlie di emigrati russi prese lezioni di danza classica nei piccoli studi parigini dove insegnavano, per sopravvivere, alcune ex ballerine imperiali, tra cui la grande Olga Préobrajenska. Era soltanto un’allieva amatoriale, ma la passione per la danza la contagiò per sempre. Dopo gli studi di arte e di lettere, entrò nel giornalismo come redattrice di una rivista d’attualità, Vu. Lì riuscì a infilare i suoi primi articoli di danza, cominciando così a conoscerne gli artisti. Serge Lifar, che regnava sul balletto all’Opéra di Parigi, fu il suo primo idolo ("sono stata fan di molti, ma adoratrice solo di uno, Lifar" mi disse una volta), e fu il primo palpito di quel sintomo della ballettomanìa che è l’innamoramento, devoto e appassionato, per i danzatori (da lei sempre non solo riconosciuto, ma coltivato, con uno strano misto di lucidità e di abbandono). Conobbe un compatriota studente di economia, si sposarono, lo contagiò della sua passione e lo trasformò in uno dei più famosi fotografi di danza del secolo. I venticinque album fotografici, uno all’anno, di Serge Lido coi commenti (e soprattutto con le scelte) di Irène Lidova sono una testimonianza straordinaria di tutta un’epoca del balletto.
Ci furono anni difficili – la guerra, l’occupazione, l’immediato dopoguerra – ma vitali e creativi. Un giorno, alla scuola dell’Opéra di Parigi, scelse per l’obiettivo di Serge Lido tre ragazzini: erano Roland Petit, Jean Babilée e Jean Guélis. L’occhio infallibile era una sua dote primaria; a teatro, anche negli ultimi anni, sofferente e con la vista diminuita, in tutto un corpo di ballo individuava subito, magari nell’ultima fila, un giovane talento; e la serata era illuminata dall’entusiasmo della scoperta.
A Roland Petit affiancò una ballerina e coreografa enfant prodige, Janine Charrat, li portò dal suo amico Jean Cocteau, s’inventarono una compagnia da pochi soldi, con Jean Babilée, Ethery Pagava, poi Renée (Zizi) Jeanmaire e altri protetti di Irène, e nacquero i primi capolavori del balletto francese del Novecento. In seguito, collaborò tra l’altro con la famosa e avventurosa compagnia del Marchese di Cuevas.
Era fedele nei suoi amori artistici, ma i suoi giudizi erano molto decisi. Un giorno, molti anni dopo quegli inizi poveri e felici, disse a Roland Petit alla fine di un suo spettacolo: "Allora, Roland, quando ci farai un vero balletto?" Ora intendo che cosa volesse dire; lui forse non lo volle intendere, si offese e non le parlò mai più. Gli artisti sono così, tutto il bene è semplicemente dovuto, una parola sgradita è un tradimento irreparabile. Irène lo sapeva meglio di chiunque; continuò ad amarlo e a dire e a scrivere che Roland Petit era il più grande talento che avesse mai incontrato.
C’erano, nell’ambiente, anche gli amici sicuri, e nell’appartamento della rue Chernoviz passava regolarmente mezzo mondo della danza, mentre il telefono era il rimedio quando il salotto restava deserto. Nina Vyroubova, Yvette Chauviré, Janine Charrat, Joseph Lazzini, Mario Porcile (il direttore del Festival di Nervi, luogo incantato per Lidova, dove abbiamo passato estati memorabili), Paul Szilard, Lilavati e Bengt Häger, John Taras, Carla Fracci e Beppe Menegatti, il critico John Percival, il regista Dominique Delouche, erano tra i più assidui, fino agli ultimi giorni. Anche Rudolf Nureyev, nei primissimi tempi a Parigi, era ospite fisso alle cene russe di Irène; ma se ne dimenticò presto. Per il balletto russo, e dunque per gli artisti russi, aveva un passione speciale; era forse un modo di ritrovare le sue radici almeno nell’arte che amava, di sentirsi russa, di parlare la sua lingua. Era fiera di essere un po’ la loro "ambasciatrice" in Occidente, soprattutto negli anni in cui i contatti erano rari e difficili. Di alcuni divenne amica: di Maya Plisetskaya, degli amatissimi Katia e Valodia (Maximova e Vassiliev), poi dei più giovani Vladimir Derevianko e Vladimir Malakhov.
Tra gli amici più vicini, s’era creata una sua famiglia elettiva, soprattutto dopo la morte inattesa del marito, nel 1984, che l’addolorò grandemente. C’era anzitutto Milorad Miskovitch, altra sua scoperta dei tempi felici, danzatore ammirato e amico di sempre; una sorta di figlio, che in questa veste ha ricevuto gli amici all’ufficio funebre del 31 maggio 2002, nella chiesa russa di Parigi della rue Daru. L’altro "figlio", di acquisizione più recente, ero io. E nell’ultima generazione, Toni Candeloro, che abitava nella stessa casa, nei suoi anni di studente e danzatore a Parigi, formando con lei a tutte le uscite una strana coppia, singolarmente affiatata; si sa, coi figli ci si può talvolta irritare, ma coi nipoti l’intesa è incondizionata.
Dimenticavo quasi di dire, tanto era nota, della sua intelligenza fuori dal comune; intelligenza non convenzionale, colta ma intuitiva, che andava immediatamente al nocciolo delle cose dell’arte e della vita, e saldamente poggiata su una memoria formidabile. A novant’anni, ricordava il cast completo di uno spettacolo di mezzo secolo prima, o raccontava in pochi tratti precisi la carriera e la personalità di un artista dimenticato da tutti. Ma non era, la sua, la memoria maniacale dei vecchi, fissata nel passato; ricordava tanto una giornata di mezzo secolo fa quanto quella di ieri, s’interessava all’oggi ed era curiosa del domani. Scoprire un giovane coreografo o un danzatore di talento era per lei più importante che aver frequentato Lifar o Robbins o aver visto danzare mille volte Alicia Markova. Però non aveva, di certi vecchi, il patetico vezzo di voler sembrare alla moda; era, soprattutto negli ultimi anni, davvero al di sopra della mischia, sicura nella sua sapienza antica e attentissima al presente. Classico, moderno, contemporaneo, le sembravano parole prive di senso. Amava Giselle ma aveva spinto e difeso il giovane Merce Cunningham in Francia quando ancora nessuno gli faceva caso.
Ma qui sto scrivendo io un "incontro", la specialità che Lidova aveva dedicato a BallettoOggi per tanti anni! Forse per averne letti, tradotti, corretti, discussi tanti, me n’è uscito ora dalle dita uno, l’ultimo. Mi mancherà molto – e sono certo che ti mancherà, caro nostro lettore o lettrice – quella pagina verso il fondo della rivista, con quel vecchio viso occhialuto e sorridente ("c’est votre journaliste américaine", scherzava), col suo testo stringato, tutto periodi brevi e incisivi, che incorniciava una bella foto di Serge Lido. E mi sembra inimmaginabile non alzare più il telefono, ogni sera verso le sette, per commentare le nostre povere cose della danza, o per chiederle qualcosa che d’ora in poi cercherò inutilmente nei libri. Una luce s’è spenta e c’è un vuoto in più, nel mondo della danza, e nel mondo.
Alfio Agostini
BallettoOggi n. 137 – luglio 2002
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