Articoli tratti da Ballet2000

Paul Taylor Dance Company a NY

Dust – cor. Paul Taylor, mus. Francis Poulenc; Private Domain – cor. Paul Taylor, mus Iannis Xenakis; Piazzola Caldera – cor. Paul Taylor, mus. Astor Piazzola, Jerzy Peterburshky
New York, Lincoln Center, David H. Koch Theater
Tra i grandi maestri della modern dance americana, Paul Taylor era probabilmente il coreografo più eclettico e più sincretico; e, come danzatore, il più atletico. Negli anni in cui si esibì con la Merce Cunningham Dance Company e con i contestatori del post-modern, provò su di sé il senso di libertà di un linguaggio indipendente; del suo lavoro con Martha Graham, conservò una forza espressiva che nasceva dalla tensione tra il torso e le gambe; infine, quando George Balanchine creò per lui un ruolo in Episodes, assorbì la ricchezza dell’eredità classica.
Taylor non trascurava nulla, dalla semplice camminata alla danza più complessa. E le sue 147 ‘danze’ (come le chiamava semplicemente egli stesso), create tra il 1954 e il 2018 (poco prima di morire, a 88 anni), percorrono disinvoltamente tutto un ventaglio di registri, dai lavori astratti a quelli drammatici.

 

L’abituale stagione a New York della sua compagnia, che aveva luogo prima al City Center e dal 2012 nel prestigioso Lincoln Center (al David H. Koch Theatre), si è svolta l’inverno scorso con diversi programmi che hanno messo in luce la versatilità di Taylor, ora sereno, ora selvaggio, sempre poetico.
Il programma al quale ho assistito si componeva di tre lavori che si estendono su trent’anni della sua lunga carriera.
Dust, creato nel 1977, è uno di quelli più oscuri: distilla un’inquietudine latente. Nove danzatori attraversano la scena, con il corpo contratto, i piedi flex, come se cercassero di evitare una minaccia in agguato. In altri momenti, tremano, sono attraversati da spasmi nervosi e sembrano sottomessi a shock elettrici. Taylor, che definiva questa sua creazione come «un flusso di azioni che emergono dall’inconscio, come bolle» dava prova di un pessimismo poco frequente nei suoi altri lavori.
Invece, Private Domain, creato nel 1969, si presenta come un lavoro più eclettico e, probabilmente, aveva una certa importanza per Taylor dato che la sua biografia, pubblicata nel 1987, porta lo stesso titolo. E tuttavia si tratta anche in questo caso di un lavoro inatteso per un coreografo noto per il suo tratto di malizia e solarità. Senza essere angosciante, l’atmosfera è comunque tesa. I danzatori sono spesso a terra ed eseguono movimenti a scatti e spigolosi che rivelano l’influenza della Graham. La scenografia del pittore Alex Katz, composta di grandi pannelli mobili e dietro la quale i danzatori scompaiono regolarmente, contribuisce all’atmosfera strana di Private Domain.
Con Piazzola Caldera, ritroviamo il talento così speciale di Taylor nel cogliere l’essenza delle cose senza tuttavia rappresentarle. In effetti, sulla musica sofistica di Astor Piazzola, i danzatori non danzano il tango ma ne evocano il profumo. Taylor s’interessa meno ai passi del tango e più alle sue origini, scegliendo di ricreare l’atmosfera nella quale è nato questo ballo: i bar popolari di Buenos Aires in cui emergono la solidarietà della classe operaia ma anche la solitudine e la tensione sessuale, che è qui evocata fin dall’entrata in scena del gruppo di uomini che fissano il gruppo di donne.
Nel programma di lavori alquanto singolari tratti dall’opera proteiforme del coreografo, la Paul Taylor Dance Company si è mostrata dinamica e atletica. Ed è anche determinata a «prolungare la visione di Paul Taylor rendendo omaggio ai maestri della modern dance e incoraggiando i giovani creatori» secondo le parole dell’attuale direttore artistico Michael Novak.
Sonia Schoonejans

BALLET2000 n° 284, febbraio 2020