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Nureyev, un mito che dura

Ormai molti anni sono passati dalla sua scomparsa (1993) e il mondo lo ricorda, mentre ci si interroga su quel che resta, oggi, di Rudolf Nureyev. Ci si sforza di essere più oggettivi possibile, di osservare il “fenomeno” con animo equanime e critico, ma la lente attraverso cui si guarda, per quanto mi concerne, ha un difetto di rifrazione all’origine. Sono totalmente di parte, lo confesso.

Il ricordo di Nureyev si intreccia in me allo stupore di essere sopravvissuta a un ciclone. Immaginate di essere una giovane accanita melomane, e che qualcuno vi proponga di lavorare per Maria Callas negli ultimi anni di vita. Andreste in visibilio e accettereste, con la remota sensazione di consegnarvi alle fauci di una creatura temibile. Con lo stesso stato d’animo è iniziata nell’88 (proprio mentre lavoravo alla redazione di BallettoOggi!) la mia avventura da giovane addetta stampa di Nureyev  – qualifica in realtà molto flessibile: mi sono occupata di tournées e dintorni, in teatro si è jolly per definizione – e finita nel ’92, il giorno in cui non riconobbi più la sua voce al telefono e capii che il corpo era stremato dalla malattia, mentre erano in atto manovre per l’eredità alle quali non volevo assistere.

Occorreva un buon livello di resilienza per lavorare per il divo Rudolf in quegli ultimi, difficili anni, sapendo che, per tenerlo in scena, si combatteva una battaglia disperata e persa in partenza, da nascondere con cura per non violarne il segreto. Il carattere terribile che faceva tremare i suoi ballerini non si era addomesticato: non c’era mai un unico Rudolf, poteva essere vulnerabile e spregiudicato, generoso e avido, inaccessibile e “easy”, esplosivo e caustico, ma sempre sintetico e solidamente professionale nel comunicare. L’artista amplificava le qualità dell’uomo, quell’essere vetta e abisso, incapace di essere normale, di cavarsela da solo nelle piccole incombenze del quotidiano. Da ciò l’insofferenza per la via di mezzo, la mentalità impiegatizia, le logiche sindacali della professione tersicorea a lui intollerabili all’Opéra de Paris come alla Scala.



Certo, la fama planetaria, anche negli anni del declino, non si era scalfita: quando, nel pomeriggio, nell’ufficio milanese di Luigi Pignotti (assistente e agente di Nureyev in Italia) arrivavano le telefonate dagli Stati Uniti, erano i Kennedy a chiamare. Ecco, aver respirato quell’atmosfera sovraeccitata è come essersi avvicinati a un sole che attira e acceca. Cercare di comprendere Rudolf significava interrogarsi sul mistero del talento, questione cruciale ma spesso negletta anche da chi si occupa, a vari livelli, professionalmente di danza. Dunque, l’essenza stessa del teatro, il talento e il suo rovescio, l’onore e l’onere, quell’inquietudine che lo costringeva a vivere da zingaro nell’animo, a fuggire da se stesso. Qualsiasi cosa sia il talento, Nureyev l’ha vissuto come una missione e portato come una croce sulle spalle, senza dimettersi da se stesso, fino all’ultimo dei suoi giorni. “Le stars – scriveva Edgar Morin nel suo saggio I divi – sono creature che partecipano contemporaneamente dell’umano e del divino, simili sotto un certo aspetto agli eroi della mitologia o agli dei dell’Olimpo in quanto suscitano un culto o, addirittura, una sorta di religione”. Gli effetti più fanatici di quel culto si misurano ora sulla sua tomba-mosaico a tappeto caucasico, le cui tessere vengono costantemente trafugate dal cimitero ortodosso di Sainte-Geneviève-des-Bois, a ventiquattro chilometri da Parigi.
Dunque, che cosa ci manca di più di Nureyev, oggi? Non i suoi balletti, che gli sono sopravvissuti (le sue opulente versioni dei classici, non le creazioni originali come Manfred o Washington Square), né la leggendaria biografia sondata e magnificata da documentari, libri, dossier e ora da uno spazio-museo permanente, il “lieu de mémoire” che la Francia, Paese che l’ha adottato come propria gloria nazionale, sta per dedicargli al Quartier Villars di Moulins, nel Centre National du Costume de Scène. L’inaugurazione è prevista per il prossimo ottobre; a firmare il progetto, commissionato dal Ministero della Cultura francese, è lo stesso autore che ha disegnato la tomba e molti allestimenti dei suoi balletti, lo scenografo premio Oscar Ezio Frigerio, amico tra i fedelissimi.
Sicuramente, Nureyev ci manca per il coraggio e per l’orgoglio di affermare il balletto come arte “first class”. Avrebbe riso beffandosi dell’autocom-miserazione con cui in Italia ci si piange addosso dicendoci, con ragioni fondate nel FUS, che la danza è la “Cenerentola” delle arti. E avrebbe stigmatizzato – lui che si era spogliato del mantello del Principe per diventare il Lucifero di Martha Graham – l’attitudine ottusamente didascalica con cui la danza, per essere comunicata, viene ancora parcellizzata sotto etichette che contribuiscono a ghettizzarla. Ma ciò di cui sentiamo più la mancanza, in un Occidente ripiegato sulla propria crisi economica, è la capacità di Nureyev di pensare il futuro, di investire credendo in se stessi e negli altri, senza timore di rischiare e fallire per primeggiare all’interno di un sistema culturale sempre più friabile e incerto.
Valeria Crippa

BALLET2000 Italia n° 237, aprile 2013