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Visto da vicino: Maurice Béjart

di Roger Salas
 - Le date dei ricordi a volte danno le vertigini, ci fanno sentire il passo accelerato del tempo. Ho conosciuto Maurice Béjart nel 1968, molto presto per me; ero studente di pianoforte alla Scuola Nazionale di Arte dell’Avana, e proprio in quell’anno c’era a Cuba una fugace illusione di apertura nell’ambiente del pensiero e dell’arte, in acuto contrasto con quel che di grave accadeva in quello stesso tempo. L’Avana era un centro fervente di personalità di tutti i campi artistici. Come si sa, nel balletto classico la piccola isola dei Caraibi era già una potenza, in gran parte grazie alle figure personali di Alicia Alonso come ballerina e di Fernando Alonso come maestro fondatore.
Accadde, nel luglio del 1967, che passò di lì il Salon de Mai di Parigi con i suoi quadri per noi rivelatori, da Picasso a Joan Miró, Alexander Calder, Eduardo Arroyo, Antonio Saura, Dorothea Tanning, Vasarely, Magritte, Man Ray, Wilfredo Lam, Alechinsky... una festa di modernità e di avanguardia che ci aprì la coscienza a tutti. Qualche mese dopo, nel 1968, fuori dal programma regolare della stagione teatrale, atterrò all’Avana Maurice Béjart con tutto il suo Ballet du XXe Siècle che, mi azzardo a dire, era nel momento del suo splendore più abbagliante.
Non ci fu quasi pubblicità. Ma tutti restammo estasiati, dalla massa di riccioli biondi di Jorge Donn e dalle figure baldanzose di danzatrici e danzatori molto diversi da quelli strettamente accademici a cui eravamo abituati. Ci fu perfino un po’ di sconcerto e sorpresa. Ricordo che per il primo spettacolo (furono due più una prova aperta al pubblico), aprirono le porte laterali del teatro dell’opera (il Gran Teatro García Lorca, come si chiamava allora) e il foyer si riempì in pochi minuti.
Tutti volevamo vedere quel fenomeno: era balletto, certo, ma molto differente. Le ragazze avevano le scarpette da punta, ma facevano evoluzioni e pose a cui non eravamo abituati. Era qualcosa di diverso, ma terribilmente accattivante. Non riuscivamo a staccarci da lì, eravamo un gruppo di studenti di musica, di danza, e perfino qualcuno della scuola di pittura, un gruppo di inquieti che facevano di tutto per vedere classi e prove nelle sale di lavoro del Balletto Nazionale di Cuba nel teatro stesso.
Un giorno, in una pausa, stavamo nella piazza di fronte al teatro e passò davanti a noi Béjart con Jorge Donn. Uno di noi, più audace, gridò: “Señor Béjart, Merci, merci: gracias por venir a Cuba!”. I due sorrisero e si avvicinarono; con nostro stupore, Béjart parlava molto bene spagnolo e Donn era argentino, di modo che fu facile una breve conversazione. Il coreografo ci chiese semplicemente che cosa facevamo eccetera e ognuno disse la sua; ci raccomandò di tornare il giorno dopo a teatro, di non perdere il secondo spettacolo in cui lui stesso interpretava La nuit obscure con la grande attrice spagnola Maria Casares che recitava testi di San Juan de la Cruz, mentre il bailaor flamenco Antonio Cano zapateava con i suoi stivaletti rilucenti.
Non potrò mai dimenticare quella serata, il virtuosismo in costumi di prova di Ni fleurs ni couronnes, la complessa modernità di Bhakti, il colpo al cuore del Sacre du printemps, la seduzione avvolgente del Boléro.
Passarono gli anni e io abbandonai Cuba. Dopo qualche anno in Italia mi stabilii a Madrid e divenni giornalista del quotidiano El País, che nell’estate del 1987 mi inviò a Bruxelles, sede della compagnia di Béjart. Lì incontrai il mio buon amico cubano Alfonso Catá, di passaggio, che dirigeva allora il Ballet du Nord a Roubaix, in Francia (nulla faceva pensare che poco tempo dopo l’avremmo perduto per sempre). Quella sera, nella Grand Place di Bruxelles, c’era spettacolo e alla fine Catá ed io ci avvicinammo a parlare con Maurice, che sembrava molto preoccupato: «Tutto questo è finito – ci disse con gravità – la prossima volta ci vedremo in un altro posto». Effettivamente, la guerra senza scrupoli scatenata contro di lui da Gérard Mortier, allora direttore del Théâtre de la Monnaie, finì in un modo quasi brutale che ancor oggi deve essere chiarito. Resta il fatto che Mortier fu il vero e principale responsabile della rovina del Ballet du XXe Siècle e della partenza di Maurice Béjart, che si trovò di nuovo errante, alla ricerca di un luogo di lavoro e di vita, ancora con il dolore vecchio ma mai sopito di quando la Francia gli aveva voltato le spalle.
Il giorno dopo pranzammo in tre, e fu un pranzo triste. Béjart ci parlò di Losanna e dell’impegno di Philippe Braunschweig e di sua moglie, l’ex danzatrice Elvira Kremis, ad accoglieli nella città svizzera. Anni più tardi, i Braunschweig mi raccontarono nei particolari tutta quell’epopea di viaggi e petizioni a politici e amici.
Alla fine di quel pranzo a Bruxelles Béjart mi disse: «vieni a Losanna e potrò dirti di più».
Così feci. Il collega del País Agustí Fancelli, della redazione di Barcellona, fu con me a Losanna. Eravamo tra i primi giornalisti a vedere la sede dei danzatori e del coreografo, da poco installati in alcune sale improvvisate in una palestra e in un campo coperto di pallacanestro. Gocciolava dal tetto e c’erano secchi qua e là per raccogliere l’acqua. Béjart mi disse: «Chissà che questi secchi e le gocce dal tetto non finiscano per apparire in un mio balletto...» Cercava di scherzare in una situazione drammatica. Ancora una volta fu generoso del suo tempo e delle sue parole, nell’intervista. Era fissato sull’idea di aprire una scuola (che fu poi Rudra).
Anche Fancelli fece la sua intervista e tornò a Barcellona. La mia fu pubblicata poi dal settimanale spagnolo El Globo (stesso editore del País), ma io ero rimasto due giorni in più a Losanna cercando di vivere il ritmo quotidiano di quello che si sarebbe chiamato Béjart Ballet Lausanne. Un giorno lo passai interamente con Maurice nella sede, assistendo a prove. Ricordo bene uno spezzone di coreografia che lui stava creando con passione per la danzatrice catalana Elisabeth Ros. E subito mi resi conto che era lui il genio benefico che doveva stimolare i demoralizzati e un po’ abbattuti danzatori.
Tornai a Losanna anche nel 1992, ma stavolta l’appuntamento era con Mikhail Baryshnikov. Lui ed io eravamo seduti nella caffetteria vicina allo studio e avevo appena acceso il registratore per l’intervista quando venne verso di noi l’assistente di Béjart: «Scusate, Maurice ha interrotto la prova quando ha saputo che eravate qui fuori e vi vuole subito di là con lui». Misha si strinse nelle spalle sorridendo: «Maurice è fatto così. Ci vediamo più tardi».
Poi, incontrai molte volte Béjart, a Siviglia, a Parigi, di nuovo a Losanna per qualche “prima” e sempre, certo stupore mio, mi ha mostrato la volontà di raccontare tutto; le sue confidenze mi basterebbero per scrivere un libro... Abbiamo parlato molto di Cuba, naturalmente, del destino dei danzatori emigrati, del futuro del balletto. L’ultima volta che tornai a Losanna, già era lì Julio Arozarena, straordinario danzatore cubano, che è diventato poi per me l’ultima connessione viva e umana con Béjart e il suo ricordo, che non è quieto e freddo, ma vitale e presente.
Roger Salas - BALLET2000 n° 286 - aprile 2021

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