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Hans van Manen, ottant’anni di modernità

di Roger Salas

Il maggiore coreografo olandese vivente ha compiuto ottant’anni nel luglio scorso. Het Nationale Ballet, la compagnia a cui è più legato, lo ha festeggiato con una serata di gala ad Amsterdam e aprirà in settembre la nuova stagione con un programma di suoi lavori. È per noi l’occasione di ricordare la lunga carriera di questo decano del balletto moderno olandese che ha influenzato profondamente tutta la coreografia degli ultimi decenni in Europa; grande maestro delle forme, ma anche attento e ironico (e spregiudicato) osservatore dei rituali sociali...

Nel panorama della coreografia europea del XX secolo, Hans van Manen (nato a Amstelveen, in Olanda, nel 1932) ha una propria posizione di grande spicco. La sua lunga carriera da più di sessant’anni a oggi (la sua prima coreografia risale infatti al 1957) mostra una traiettoria ricca di esperienze e di risultati artistici.

La sua vivace giovinezza itinerante riflette la sua formazione professionale, nello spirito di quei tempi in cui ogni nuovo artista cercava, seguendo le sue inquietudini, il maestro più adatto. Van Manen studiò nella classe di Sonia Gaskell (che era stata nei Ballets Russes di Diaghilev e si era poi stabilita ad Amsterdam 1939), che fu poi sua direttrice nei primi gruppi olandesi di balletto. La Gaskell, come ha raccontato lo stesso Van Manen, trasmetteva la scuola russa in modo molto puro e insisteva ossessivamente sulla pulizia dell’esecuzione; però al tempo stesso sosteneva l’idea del cosiddetto “balletto astratto” (riferendosi specialmente a Balanchine). Questo principio di astrazione fu poi un po’ soffocato nel suo periodo parigino, quando nel 1959 Van Manen entrò nelle fila del Ballet de Paris di Roland Petit.

 

La complicata e agitata fondazione del Nederlands Dans Theater vede Van Manen alla testa della nuova compagnia insieme a Benjamin Harkarvy; ed è lì che, disponendo di una formazione di danzatori molto energici, alcuni dei quali conosceva già dai tempi della compagnia della Gaskell, il giovane coreografo mette in pratica le sue idee creative.

Dal punto di vista musicale, Van Manen percorre un ampio arco di epoche e stili, iniziò con Manuel María Ponce e Martin Honegger, ma in seguito lavorò perfino su sinfonie di Haydn. L’irrequietezza della gioventù lo portò anche diverse volte al cabaret, ai music-halls e ai programmi televisivi.

L’epoca itinerante della sua vita che lo porta a lavorare per compagnie come lo Scapino Ballet, il Balletto dell’Opera di Düsseldorf, il Tanz-Forum di Colonia o il Balletto dell’Opera di Monaco lo situano chiaramente nel centro Europa in un distante e diciamo amichevole confronto con il fenomeno di John Cranko a Stoccarda (c’erano solo cinque anni di differenza tra i due).

È a partire dal 1970 che si dedica alla coreografia come free-lance ed è allora che il suo stile si disegna con maggiore chiarezza. Da allora infatti, la sua passione per Stravinsky, Debussy o Ravel, ci ha offerto lavori di grande peso estetico e qualità inventiva. Van Manen è un raffinato costruttore di combinazioni sulla musica. Si direbbe che in questo sta precisamente la colonna portante del suo stile; e se si può parlare di una scuola coreografica olandese di balletto moderno, lo si deve in gran parte a quello che è uscito ed eventualmente progredito dal catalogo personale di Van Manen. Ciò si fa evidente quando vediamo le opere di Jirí Kylián, che si formò come coreografo appunto in Olanda e all’ombra artistica di Van Manen. Di conseguenza, anche se in misura minore, questo è successo allo spagnolo Nacho Duato e perfino a un contemporaneo e compatriota di Van Manen: Rudi van Dantzig. I due furono compagni alla sbarra fin dai tempi delle classi della Gaskell e nel suo Ballet Recital, e per giustizia si dovrebbe parlare di influenza reciproca. Ma mentre Van Dantzig era più cerebrale e oscuro, Van Manen è più libero ed espansivo con un certo humour sarcastico, come quando presentava le danzatrici con tacco a spillo o nei suoi riferimenti espliciti ai balli di sala (pensiamo ai famosi Five Tangos o a Twilight, su musica di John Cage, o ancora a Black Cake).

Uno dei suoi pezzi più famosi e passati nel repertorio internazionale è Adagio Hammerklavier (1973, su musica di Beethoven) in cui le coppie stabiliscono un forte gioco di dipendenza fisica e tensione corporea; questo lavoro sta all’apice dello stile di Van Manen e può essere considerato il suo decalogo estetico; è stato anche il primo balletto in Europa in cui gli uomini portavano lunghe gonne nere e il torso nudo alla maniera orientale.

Dal punto di vista personale, in molti sensi Van Manen è un olandese tipico, e il suo carattere può sorprenderci. C’è qualcosa di aspro e sconcertante nei modi, però tutto questo si addolcisce nel vocabolario proprio della scena in cui persegue sempre un ideale di armonia, non solo negli sviluppi simmetrici ma soprattutto, come abbiamo detto, nella costruzione musicale molto accentuata. La sua fervida ammirazione per George Balanchine gioca in questo un ruolo decisivo; nella stessa epoca, altri coreografi americani esploravano gli stessi terreni, in primo luogo Jerome Robbins, Glen Tetley e John Butler. Di tutti loro ci sono elementi filtrati con intelligenza nello stile di Van Manen. Non si tratta di un passaggio diretto o imitativo ma di una elaborazione di materia coreografica nella quale le basi del movimento si adattano alle esigenze del nuovo creatore, in questo caso un Van Manen che cercava la sua voce personale nel coro. È l’Europa degli anni Sessanta e Settanta che dimentica definitivamente la guerra e l’orrore nazista attraverso intenzioni plastiche colloquiali e immediate che il pubblico possa recepire direttamente e assimilare senza troppi cerebralismi. Van Manen cerca nei movimenti quotidiani, negli atteggiamenti civili, elementi semplici che una volta stilizzati diventano il suo fraseggio e il suo vocabolario.

Quei tempi erano anche quelli della rivoluzione sessuale, e uno dei primi Paesi all’avanguardia per una vera e naturale tolleranza sessuale sono stati proprio i Paesi Bassi. Van Manen è stato sensibile a questi profondi cambiamenti sociali che hanno incrinato i muri religiosi di stampo calvinista; nelle sue coreografie il sesso è presente nei duetti tra due uomini, nel nudo integrale di uomini e donne, in un erotismo senza terrori ma anche senza coperture di falsa morale borghese. Probabilmente l’Olanda era il luogo ideale per una simile estetica, anche nel balletto.

Un altro campo per il quale possiamo considerare Van Manen un vero pioniere in ambito europeo è nell’uso del video e del film come oggetto coreografico. Nel 1970 creò Mutations insieme a Glen Tetley (con musica di Stockhausen) che può essere visto come il più importante esperimento formale del decennio; e nel 1979 è la volta di Live. Si trattava di un lavoro aperto al pubblico nel Teatro Carré di Amsterdam, in cui un cameraman inseguiva letteralmente una danzatrice che eseguiva un assolo. Questa video-ripresa dal vivo era proiettata in tempo reale su uno schermo. Questi esperimenti a quell’epoca furono rafforzati dal lavoro congiunto con pittori per lo più di tendenza astratta, il che corrispondeva perfettamente alle sue idee estetiche. Diversi balletti di Van Manen vantano scenografie e costumi disegnati dal pittore Jean-Paul Vroom. Famoso illustratore grafico, fotografo (come lo stesso Van Manen) e occasionalmente regista di cinema, Vroom aveva molti punti in comune con Van Manen e la lunga collaborazione, l’evidente complicità tra i due è parte di ciò che possiamo chiamare la “scuola olandese moderna” e della sua estetica. Le coreografie di Van Manen sono incorniciate dalle scene di Vroom formando un tutt’uno di forte e incisiva fisionomia artistica.

Hans van Manen è inoltre un eccellente fotografo professionale e le sue fotografie sono state esposte in gallerie importanti e musei di tutto il mondo: una lente privilegiata, la sua, che il più delle volte si è servita dei suoi danzatori come modelli. Questi stessi danzatori, che sono stati nelle sue mani argilla per modellare uno stile coreografico moderno e raffinato al tempo stesso ma sostanzialmente legato alle forme stilizzate della danza accademica, sono poi stati messi da lui in posizione statuaria, immortalati a volte nudi e perfino in pose provocatorie, facendo così risplendere la parte più fiera e perfino controversa della sua forte personalità artistica.

I nudi fotografici di Van Manen non lasciano indifferente nessuno (paradossalmente, oggi nel mondo, per il pubblico comune, Hans Van Manen è più famoso come fotografo che come coreografo); sono poderosi ed espliciti, parlano il linguaggio di una plasticità sublime e superiore, forse la stessa che il coreografo ricerca nell’attenta elaborazione della materia di danza. In altre parole, la fotografia fissa un ideale, certamente edonistico e sensuale, pieno di carica erotica ancestrale e profonda, che si ritrova nel materiale coreografico, ma attraverso un processo stilizzato, di depurazione artistica, di cui solo è capace un grande creatore di forme in movimento.

Roger Salas

BALLET2000 n° 231 - luglio 2012